servizi editoriali e traduzioni in spagnolo e italiano
Creative Commons License

Le città teatrali nel Seicento italiano: i laboratori del “teatro possibile”*

 

 

ROBERTO CIANCARELLI

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”

© 2008 Midesa s.r.l.

 

 

Per delineare immagini delle città teatrali nell’Italia del Seicento, e per poter contestualizzare questo tema in una cornice pertinente, credo sia necessario individuare categorie storiografiche che consentano di riconoscere e di valorizzare la straordinaria ricchezza e complessità di questo secolo teatrale. Per poterne dare conto, proverò a partire dalla nozione di “tradizione teatrale” o, per meglio dire, dalle forme di trasmissione della tradizione a teatro e dall’uso teatrale della tradizione.

Le tradizioni a teatro sono una questione incandescente: il teatro nella storia si nutre di tradizioni, si nutre dell’aspirazione a creare nuove tradizioni, della possibilità di mettere mano alla tradizione per trasvalutarla, per aggiornarla e per vivificarla. La tradizione a teatro, come ha scritto Fabrizio Cruciani, non “è la passiva conservazione di forme e di valori accettati nelle piccole successive degradazioni della continuità… è piuttosto la conquista attiva e dinamica che si serve dell’esperienza che ha prodotto forme e valori”.[1]

La storia delle trasformazioni teatrali è costellata di parabole di tradizioni e di tradimenti, di conoscenze trasmesse, di eredità riscoperte, è “il processo di attualizzazione dell’immanenza del presente”, l’invenzione del nuovo, il laboratorio del possibile che scaturisce dalla memoria e dalla concretizzazione dell’esperienza.  

Quello che caratterizza il Seicento teatrale è proprio la nascita di tradizioni teatrali fondative, tradizioni che configurano il canone e il modello storiografico del teatro moderno. Si delineano e si consolidano in questo secolo le tradizioni che rappresentano l’“esperanto” del teatro italiano nel mondo, dal melodramma, alla commedia dell’arte, al teatro all’italiana. Vere e proprie “tradizioni di nascita” perché si depositano nella storia come conoscenza e memoria, come repertorio del possibile. Analizzare in questa prospettiva le grandi eredità seicentesche consente di restituire alla tradizione, al passato, la propria storia e il proprio presente, recuperandoli come “luogo dei possibili e delle scelte”. Dal punto di vista storiografico è la possibilità di valorizzare “le origini” come conquista creativa, come scoperta dell’ignoto, come tradizione possibile.

Proviamo allora a considerare il teatro all’italiana, le sue origini, i suoi processi fondativi, in relazione alla tradizione.

Dal punto di vista storico e documentario, appare evidente come l’invenzione e la definizione del modello architettonico del teatro all’italiana debbano essere considerate il risultato di un’idea dello spazio pensata come funzionale e organica al melodramma. A partire da questa considerazione, se analizziamo la storia dello spazio scenico in epoca moderna, dalla definizione seicentesca di un modello funzionale allo spettacolo fino alle ricerche sceniche novecentesche, le più recenti e contemporanee, che possono essere convenientemente delineate nella formula storiografica del “passaggio dallo spazio della drammaturgia alla drammaturgia dello spazio”[2] (che designa una concezione dello spazio come modalità drammaturgica e come dispositivo che struttura la relazione teatrale a partire da queste considerazioni), appare evidente come la storia dello spazio scenico in epoca moderna non debba essere pensata come storia di un genere che si riproduce, ma come storia di uno spazio ideato, progettato e organizzato in relazione agli spettacoli che deve ospitare, come la storia di uno spazio che si relaziona alle trasformazioni del lavoro teatrale. Restituire la tradizione di nascita del teatro all’italiana alla dimensione problematica del presente significa rinunciare alla suggestione evoluzionistica di una sistematica rassegna di monumenti storici, ed esplorare, invece, le modalità di trasmissione, di riappropriazione di quella tradizione, valorizzando e privilegiando, rispetto agli esiti e ai risultati, le conoscenze dei principi ispiratori, dei criteri guida, dei percorsi di fondazione che hanno consentito l’invenzione e l’origine di quei modelli e che sono state incorporate nella storia. Seguendo questa prospettiva, proviamo a considerare anche la commedia dell’arte come tradizione fondativa.

Per valorizzare l’eredità della commedia dell’arte nella storia, occorre delineare le modalità di trasmissione di conoscenze e di saperi artistici, occorre, in sostanza, riconoscere alla tradizione il suo valore di insegnamento. Per poterlo fare proverò a dar conto, in maniera sintetica e per frammenti, di come gli insegnamenti e le tradizioni teatrali seicentesche abbiano influenzato le rivoluzioni teatrali novecentesche. 

È stato detto a ragione che “la commedia dell’arte non appartiene soltanto al passato, ma è anche teatro del Novecento: è stato il punto di riferimento delle utopie, delle visioni e di tutte le ribellioni teatrali del XX secolo, da Mejerchol’d a Copeau, da Craig a Barba”. La commedia dell’arte percorre la prassi di Jouvet e di Dullin, si rivela nelle infuocate polemiche contro il teatro del realismo e della parola, è la “demonia”, come ha scritto Angelo Ripellino che, nella grande stagione teatrale russa, si trasforma in un’inesauribile fonte di ispirazione e di ricerca. La rivalutazione della commedia dell’arte e delle tecniche dell’improvvisazione che la definiscono, attraversa la riflessione del teatro e la prassi dei grandi innovatori del Novecento in una continua solidissima interazione che alimenta la formazione del nuovo teatro d’attore. La pratica dell’improvvisazione offre agli uomini di teatro suggestioni e prospettive per scoprire le leggi e il metodo di formazione dell’attore, per esplorare nuove tecniche di rappresentazione che non consentono soltanto di aggiornare le regole tradizionali, ma offrono anche la possibilità di valorizzare la sperimentazione e la ricerca accanto alla produzione degli spettacoli. Penso a questo proposito alle ricerche di Stanislavskij sulle improvvisazioni con le “azioni fisiche”, alle applicazioni pratiche di Vachtangov, al suo slogan affidato agli allievi di “recitare l’improvvisazione”, alle improvvisazioni strutturate di Grotowski e Barba. È alla luce di queste esperienze, che per gli attori sono contrassegnate dalla disciplina, dal rigore nella preparazione dei materiali da acquisire ed elaborare in un raffinato montaggio combinatorio, che può essere verificata l’inconsistenza del mito romantico dell’improvvisazione come spontaneità, come creatività che si accende nel fuoco dell’azione.

Il lavoro sull’improvvisazione si è innervato nella grande linea pedagogica del teatro del Novecento. Negli Studi, nelle Scuole, nei Laboratori, che nel corso di tale secolo sono fioriti in tutta Europa, la necessità di correlare la ricerca storica e la sperimentazione pratica dei principi esplorati ha alimentato preziose e inedite forme di collaborazione tra studiosi e uomini di teatro: non sono stati soltanto gli uomini di teatro ad ispirare gli studiosi e gli intellettuali ma storici della commedia dell’arte come Duchartre, Chancerel, Miklasevskij, con le loro documentate ricerche sulle maschere, sui tipi fissi, sulle sapienze drammaturgiche, hanno saputo rispondere al bisogno di conoscenza degli uomini di teatro.

Si potrebbe parlare, per i maestri del teatro del Novecento, di una forma di conoscenza o, meglio ancora, di una modalità del conoscere, che combina esperienza individuale e consapevolezza generale del fare, che consente di illuminare gli aspetti fecondi, efficaci della tradizione e rende possibile la riscoperta dei saperi artistici e delle tecniche di teatro incorporate negli insegnamenti. In questa prospettiva è davvero significativo accennare a Mejerchol’d proprio per la sua straordinaria capacità di esplorare i principi della recitazione e di attraversare differenti tradizioni teatrali.

Uno dei più grandi contributi di Mejerchol’d è stato quello di aver riscoperto il trenaz, il livello del training e dell’allenamento dell’attore, che è l’equivalente degli esercizi e delle prove cui d’abitudine si sottopongono musicisti e danzatori, che per il regista russo rappresentava la proposta di una pedagogia teatrale slegata dalle forme dello spettacolo. Il training è una necessità per l’attore che Mejerchol’d deduce dai suoi studi sulla commedia dell’arte, dalla sua capacità di riconoscere il segreto di quelle straordinarie invenzioni drammaturgiche.

Mejerchol’d seppe riscoprire la strategia drammaturgica che gli attori della commedia dell’arte per primi avevano sperimentato, che consisteva, in sostanza, nella possibilità di rompere l’unità e la continuità dei tempi di produzione del lavoro teatrale, lasciando separati il tempo del lavoro sulle parti dal tempo del lavoro dedicato allo spettacolo. Era l’individuazione di un tempo del lavoro “che è necessario allo spettacolo ma che non ne è parte”, che Mejerchol’d definiva “un modo di accumulare tesori non tanto per farne mostra quanto per ispirarsene dopo aver appreso a trasformarli e a conservarli”. Questa è la scoperta dei segreti del lavoro dei comici dell’arte che Mejerchol’d volle applicare e adattare alla sua ricerca teatrale; una scoperta che deve essere utilizzata e valorizzata anche dal punto di vista storiografico perché rappresenta uno straordinario arricchimento delle conoscenze.

Per chi studia la storia del teatro, la necessità di valorizzare le suggestioni feconde che scaturiscono dai dialoghi dei Maestri con la tradizione, si traduce in una preziosa indicazione metodologica: delinea la possibilità di utilizzare quella modalità del conoscere che, come si è detto, scaturisce dalla capacità dei maestri di riflettere e trasmettere il senso del proprio lavoro. Utilizziamo ancora una volta le parole del regista russo per cercare di comprendere la relazione tra tradizione e innovazione.

Negli ultimi anni della sua vita Mejerchol’d, quasi a ricapitolare il significato della propria ricerca e della propria esperienza artistica, descriveva “i casi di parentele complicate che si realizzano nella storia della grande arte” che aveva potuto riscoprire.[3] Erano le tracce delle eredità di epoche scomparse che si erano sedimentate in una vera e propria filiazione culturale o, per meglio dire, erano i segni di epoche scomparse che Mejerchol’d aveva riconosciuto e restituito come tradizione. L’operazione di rifondazione di una nuova estetica del teatro era legata in questo caso a quella che, a ragione, potrebbe essere definita come una scienza della tradizione.   

 

Se la tradizione del teatro all’italiana ha consacrato il teatro come istituzione sociale e culturale del moderno (basti pensare, proprio in epoca moderna, al proliferare dei teatri come spazi monumentali e istituzionali della vita cittadina), è il trapasso “dall’economia della festa all’economia di mercato”, che si delinea nel Seicento con l’affermarsi del professionismo teatrale, a determinare la trasformazione degli statuti del teatro in senso moderno. Trasformazioni che coinvolgono tutti gli aspetti del teatro: dalle forme dell’organizzazione e della produzione, alla specializzazione di saperi e competenze, all’idea di spettacolo come evento replicabile e a pagamento. È necessario soffermarsi su questo punto proprio perché la nascita del professionismo teatrale nel Seicento è uno dei nodi cruciali dell’intricato complesso di relazioni tra tradizione e modernità.

Credo sia importante, a questo proposito, sgomberare il campo da un equivoco storiografico consolidato e precisare che la nascita e le origini del professionismo non riguardano tanto gli attori, perché forme di professionismo esistevano fin dal Quattrocento, quanto piuttosto la “forma-compagnia”, la troupe teatrale, che è stato un fenomeno che ha avuto profonde e significative ripercussioni nelle trasformazioni delle forme di produzione del testo e degli spettacoli. È la nascita della compagnia teatrale a dover essere considerata come tradizione fondativa del teatro moderno, come definizione di un modello organizzativo, di una struttura produttiva, destinata a sostenere l’intero sistema teatrale. È interessante notare, a questo proposito, come la nascita del professionismo, l’affermarsi della “forma-compagnia”, abbia comportato nel Seicento anche la radicale trasformazione delle strategie di composizione del dramma.

Nell’Europa del Seicento, nelle opere dei grandi drammaturghi e degli scrittori legati alle imprese del teatro commerciale, il rifiuto della nozione classicista del dramma “come rappresentazione di un’azione” si traduce in un nuovo modo di sceneggiare, in un modo nuovo di “imbastire l’unità”, che è fondato su una raffinata tecnica di organizzazione dei diversi piani in cui è ripartita la trama, su un sistema di corrispondenze e consonanze che consente di risolvere il problema della presenza di più linee d’azione, di una molteplicità di trame, intrecci e variazioni tematiche, in un ampio ventaglio di possibilità. Questa nuova concezione del dramma come “narrazione polifonica”, questa strategia di composizione del dramma che “fa a meno delle regole e che inventa un nuovo ordine di regole”, è il risultato, come ha indicato Ferdinando Taviani in un suo prezioso contributo,[4] di una tecnica di composizione del dramma che appare diffusa e consolidata nelle “imprese” teatrali europee del Seicento ma che, pur tuttavia, resta una pratica senza teoria, una sapienza scenica che non si legittima attraverso l’enunciazione di principi e criteri, ma che si manifesta come un “sapere muto”.

Per comprendere i criteri di questa tradizione drammaturgica (una tradizione che, è bene ricordarlo, la storiografia positivista aveva liquidato constatando sommariamente la condizione di irregolarità che accomuna un repertorio di opere contrassegnate da trame “implesse e intrecciate”) occorrerà attendere l’elaborazione teorica dei principi elementari del dramma cinematografico come intreccio di azioni. Ha scritto a questo proposito lo stesso Taviani: “Per una giustificazione, vera, teorica di quegli usi, di quelle pratiche, (di quegli abusi), bisognerà attendere gli scritti di Ejzenstejn sul montaggio…”. Una tradizione drammatica (ma sarebbe più giusto parlare di una tradizione dell’arte del montaggio drammatico) che attraverso “i casi di complicate parentele” si sedimenta in una filiazione culturale: l’eredità di quelle sapienze drammaturgiche, la trasmissione di quegli insegnamenti, riguarderà poi “la maggior parte del teatro musicale e di quello ad alto consumo fino a che, fra XVIII e XIX secolo, riconquisterà i vertici più rispettati e fonderà, cento anni dopo, le drammaturgie dello spettacolo cinematografico”.

 

La nascita del professionismo e il fiorire delle imprese teatrali commerciali fu per gli uomini di teatro del Seicento la scoperta di una situazione originaria che imponeva l’invenzione di nuovi modelli. Le logiche del commercio si tradussero nella necessità di una sperimentazione e di una ricerca incessante.

In Italia a guidare questi processi non furono né i saltimbanchi, né i ciarlatani, come ha tramandato una confusa vulgata della commedia dell’arte, furono piuttosto – come seppe ben intuire Luigi Pirandello – quegli intellettuali, scrittori e letterati, che rinunciando alla separatezza, alla solitudine del loro ruolo, si riunirono in compagnie e si trasformarono in attori. Rovesciando luoghi comuni e approssimazioni storiche che accreditavano per i comici dell’arte l’immagine di attori che si erano sostituiti agli scrittori e avevano fatto a meno degli autori, Pirandello, in uno scritto del 1936,[5] aveva affermato, quasi stesse riflettendo sulla sua stessa esperienza di lavoro o stesse componendo il proprio ritratto di capocomico, che i comici dell’arte erano da considerare scrittori e intellettuali che si erano trasformati in attori. La sapienza teatrale dei comici consisteva nella capacità di adattare i processi di produzione della letteratura alle pratiche professionali del teatro e nel saper tradurre le tecniche degli scrittori accademici nelle forme della produzione degli spettacoli.

L’affermarsi del commercio teatrale spinse le compagnie del teatro professionistico all’isolamento creativo, alla ricerca, alla differenziazione, all’extraterritorialità. Le logiche del commercio contribuirono a spezzare i legami tradizionali con la città: “La commedia dell’arte – come ha scritto Siro Ferrone – non ebbe patria e i natali in nessuna città perché fu prima di tutto un teatro di rapporti e di misurazione di rapporti. Le maschere furono l’invenzione della pratica del viaggio”.[6] 

Se nel repertorio teatrale dei comici sopravvissero le tracce dei modelli culturali cittadini (dal duetto tra Magnifico e Zanni, tra il prototipo del cittadino benestante e l’archetipo dello straniero cencioso delle montagne, che costituisce il nucleo originario di organizzazione dei materiali drammatici della commedia, fino all’affermarsi della maschera di Pulcinella, che per gli slittamenti e i mutamenti di stato, per i suoi i travestimenti di commedia in commedia da mendicante a principe, può essere considerata come uno specchio impietoso e un termine di confronto di quelle oscillazioni che sono il tratto distintivo e peculiare dell’identità culturale e sociale della borghesia cittadina), la tradizione del mestiere, quella che il comico Frittellino aveva definito “la tradizione del camminare”, restò costellata invece da un destino di estraneità e disappartenenza che coincise con la condizione stessa del nomadismo e del viaggio.

 Le città accolsero le invenzioni dei comici viaggianti con un’apertura che misurava e combinava in maniera calibrata fascinazioni e sospetti. Per darne conto, si può ricorrere alle immagini di uno spettacolo che è riuscito a riflettere quella realtà storica in maniera complessa e approfondita. È il caso di uno spettacolo di Luca Ronconi del 1964, l’allestimento de Le due commedie in commedia di Giovan Battista Andreini, che in maniera parallela e complementare rispetto alle indicazioni fornite da Pirandello “riesce a condensare in poche immagini una visione storica della presenza dei comici dell’arte nella società del loro tempo”. In quello spettacolo, nella scena di un viaggio di una compagnia di comici verso Venezia, con gli attori impegnati a discutere della nobiltà della commedia poco prima di essere respinti, al loro arrivo in città, da un oste sulla porta di una locanda, Ronconi era riuscito a mostrare immagini dei comici che restituivano il senso di una loro condizione di sottile e dolorosa duplicità, sospesa tra la consapevolezza di appartenere a un’aristocrazia intellettuale e i segni di una non equivocabile condizione di inferiorità sociale.

 

 

 



* Questo intervento è il testo di una conferenza tenuta presso La Casa di Lope nel 1998 e contenuta nella raccolta di studi, curata da Mimma De Salvo, intitolata Generi e registri nella letteratura del Siglo de Oro. Atti de La Casa di Lope (1996-2002). In memoria di Stefano Arata, Roma, Bagatto Libri (in corso di stampa). La versione on line che qui si presenta ne è una rielaborazione (© 2008 Midesa s.r.l.).

[1] F. Cruciani,  “Comparazioni: la ‘tradition de la naissance’ ”, Teatro e Storia, IV (1989), pp. 3-17. 

[2] Si vedano a questo proposito le indicazioni offerte da Marco de Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 36 e ss.

[3] Si confronti con quanto documentato da Andrea Mancini in “Le straordinarie avventure di mister Chaplin nel paese dei bolscevichi ovvero la Commedia dell’arte in Russia”, Quaderni di Teatro, VI (1979), p. 121.

[4] Ferdinando Taviani, “Tre note”, Teatro e Storia, IV (1988), pp. 3-21.

[5] Luigi Pirandello, “Prefazione” a E. Levi, Lope de Vega e l’Italia, Firenze, Sansoni, 1935, pp. V-VIII.

[6] Siro Ferrone, Attori, mercanti, corsari, Torino, Einaudi, 1993, p. 17.